Se il vitto pitagorico di soli vegetabili sia giovevole per conservare la sanità, declamato nel 1747 e dato alle stampe nel 1752, è uno dei tanti scritti polemici di Giovanni Bianchi. L’avversario di turno è Antonio Cocchi (1695-1758), medico, filosofo, antiquario e letterato al pari del Planco, autore della dissertazione Del vitto pitagorico di soli vegetabili, letta nel 1743 e pubblicata l’anno successivo. Per “vitto pitagorico” si intendeva, al tempo, un regime alimentare vegetariano, e preferibilmente crudista, contrario – oltre che alle carni – alla cipolla, all’aglio e soprattutto alle fave, ma tollerante, in compenso, col latte e i latticini. L’asprezza dei fendenti polemici non oscura le buone ragioni che hanno entrambi i contendenti: Cocchi nel mostrare i pericoli di un’alimentazione carnea smodata e nell’anteporre la dieta e la vita sobria ai farmaci; Bianchi nel puntare il dito sui danni provocati dal vegetarianismo forzato di coloro che «per la povertà non possono nutrirsi e corroborarsi lo stomaco con buone carni e con il loro brodo», nel denunciare le prevenzioni e i tabù alimentari, e nell’auspicare un numero maggiore, anziché più ristretto, di alimenti, a cominciare dal «mayz, chiamato ora volgarmente gran turco o formentone».
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