Il 25 dicembre 1786, alle 2 di notte, una violentissima scossa di terremoto lunga quindici interminabili secondi gettò la città nel panico. Così Michelangelo Zanotti descrive la concitazione e lo sgomento di quell’esperienza: «Ecco che traballa il suolo, si scuote con veemenza la terra, crollano le fabbriche benché robuste e forti, stridono le travi, si aprono a viva forza le porte, cadono i soffitti». Se le vittime furono relativamente poche – nove nella città e ventitré nella diocesi –, ingenti furono invece i danni subiti dal patrimonio edilizio, già compromesso dal terremoto di un secolo prima, il giovedì santo del 1672, e rabberciato alla meglio. Chi si rifiutò di considerare il cosiddetto “terremoto della notte di Natale” una punizione divina, come andava predicando buona parte del clero, e cercò invece di dare al fenomeno una spiegazione scientifica fu l’arciprete Giuseppe Vannucci (1750-1819), allievo del Planco, che nel 1787 pubblicò l’opuscolo Discorso istorico-filosofico sopra il tremuoto. Sostenitore della “teoria elettricista”, oggi del tutto superata, Vannucci riteneva che i terremoti fossero generati da violente scariche elettriche d’origine atmosferica o sotterranea e proponeva la costruzione, lungo il litorale riminese, di quattro torri “paratremuoti” alte più di trenta metri e distanti l’una dall’altra circa ottocento metri. Queste imponenti antenne avrebbero dovuto scaricare l’elettricità e scongiurare così i terremoti futuri.
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