Francesco Sberlati, Presenze dantesche in «Gambalunga»

Presenze dantesche in «Gambalunga»

In base a una precisa idea di coordinamento storico-culturale, la biblioteca di Alessandro Gambalunga sorse in origine come un patrimonio librario cui venne affidato il delicato compito di riconoscere e tutelare il senso della “tradizione”. Non una semplice, benché preziosa, collezione di manoscritti, incunaboli e stampe, dunque, bensì una accurata selezione di materiali già inseriti in un precocissimo progetto ideologico di canone nazionale. Di qui pertanto la scelta di consentire a tutti i cittadini la fruizione della biblioteca a vantaggio della “cosa pubblica” (ovvero, res

publica), a partire da quel 1619, anno della morte di Gambalunga, che segnò una svolta decisiva nella storia delle biblioteche italiane. Anno dopo anno, secolo dopo secolo, il già cospicuo lascito gambalunghiano si incrementò considerevolmente, sempre nel rispetto delle istanze ideali sostenute dal suo fondatore, ossia continuando a prestare la massima scrupolosità circa le risorse finanziarie impiegate nell’acquisto di nuovi libri e documenti. Per questo nel testamento, Alessandro Gambalunga pose una chiara condizione: la gestione della biblioteca dovrà essere affidata a «una persona di lettere idonea et atta» a ricoprire e svolgere il complesso – e spesso controverso – ufficio di bibliotecario, il cui primo compito consisterà nell’arricchire gli scaffali di volumi per il bene della collettività, poiché i libri producono idee, prima ancora che cultura.

In questo ordine precostituito, i testi danteschi, selezionati con un criterio che senza esagerazione si può dire filologico, assumono necessariamente un significato esemplare. E poiché si tratta del più importante poeta della nazione Italia, il profeta della patria che ha scontato con l’esilio le sue convinzioni politiche, anche la collezione gambalunghiana risente delle varie (e talora strumentali) interpretazioni alle quali l’opera di Dante è stata variamente sottoposta, ieri come oggi. Certo occorre rammentare che ci troviamo in un piccolo centro periferico dello Stato Pontificio, il quale aveva più a Nord la sua grande e prestigiosa università, la più antica del mondo, a beneficio della quale papi e legati per lungo tempo destinarono forze intellettuali e finanziarie. E del resto il successivo lascito, che alla fine del Settecento va ad aggiungersi a quello originario di Gambalunga, apparteneva all’erudito Giuseppe Garampi, prefetto dell’Archivio Vaticano, cardinale, nunzio apostolico. Dante è sempre stato molto chiaro nel ribadire le sue perplessità circa il potere politico delle gerarchie ecclesiastiche, però fu anche guelfo, non ghibellino, come vagheggiavano Mazzini e Foscolo durante l’esilio londinese. E a dire il vero, certe accese polemiche verso taluni papi e cardinali e vescovi che si leggono nell’Inferno e nel Purgatorio, sono in larga parte compensate dal connubio di altare cristiano e trono imperiale puntualmente delineato nel De monarchia, ove il rapporto tra potere religioso e potere politico è definito in una lucida riflessione in cui è ribadita l’esigenza imprescindibile della reciproca separazione.

Pertanto è doveroso insistere su un fatto: proprio dal lascito del cardinale Garampi provengono i due più ragguardevoli testimoni medievali, a siglare una consapevole attività che si richiama all’autorevolezza del canone trecentesco, fino a incidere sui criteri di una scelta testuale che dovette procedere da una approfondita conoscenza della tradizione manoscritta e delle sue intrinseche peculiarità, introdotte sin dai primi

anni dopo la morte di Dante nell’area emiliano-veneta per tentare di rimodellare quel supremo capolavoro toscano entro un orizzonte storiografico tutt’altro che riconducibile alla dimensione fiorentinocentrica. Il primo di questi due preziosissimi documenti è il codice della Commedia (p. 11) trascritto e annotato dal nobile veneziano Iacopo Gradenigo, verosimilmente vergato ai primissimi del XV secolo, finemente miniato nella sezione iniziale della prima cantica, sicuro indizio di tipica fruizione aristocratica. Si tratta di un manoscritto assai considerevole, poiché il suo antigrafo (cioè il manoscritto dal quale fu a sua volta ricopiato) pare afferire a quel ramo dello stemma codicum che i filologi definiscono genericamente settentrionale, e che si distingue per ragguardevoli varianti dalla vulgata della Commedia tràdita dai codici di area toscana (o per meglio dire mediana, giacché vanno considerati anche i manoscritti umbri e marchigiani, peraltro numerosi).

Il secondo, sempre proveniente dal fondo del cardinale Garampi, è un autorevole codice (pp. 11-12) contenente opere dell’umanista Leonardo Bruni (1370-1444), tra cui una Vita di Dante che costituisce una delle fonti più attendibili per la ricostruzione della biografia del poeta. E anche qui però occorre soffermarsi un poco a riflettere: sosta obbligata, a guardare in controluce la fisionomia del Bruni. Per ragioni ideologiche non trascurabili, diviene necessità non sorvolare sulle caratteristiche del traduttore di Demostene, Senofonte, Plutarco, autore della prima storia di Firenze composta in un elegante latino rimodellato sullo stile di Tito Livio, segretario apostolico per quasi dieci anni, poi cancelliere della Repubblica fiorentina. Il fatto che il cardinale Garampi possedesse un manoscritto della Vita di Dante scritta dal Bruni, la dice lunga sull’ampiezza dei suoi orizzonti intellettuali e sulle sue curiosità di erudito e conoscitore di quel preciso orientamento dell’Umanesimo quattrocentesco determinato a codificare, con intento palesemente storiografico e persino didattico, un mito dantesco, in prima istanza inteso come auctoritas – linguistica e parimenti politica – cui attribuire la scandita misura della “fondazione” del canone. E non passi inosservato che il medesimo codice contiene pure una biografia del Petrarca, accostato a Dante quasi a voler siglare una primigenia corrispondenza di illustri auctores già dimensionati nello sviluppo cronologico della tradizione “nazionale”.

Insomma, il rapporto tra la Biblioteca «Gambalunga» e Dante (o, meglio, la fortuna e l’esegesi dell’opera dantesca) fu da subito fruttuoso, e fruttuoso rimase per oltre due secoli, anche negli anni del XVI secolo in cui molto si discusse intorno al valore normativo della letteratura dantesca, specie in quella prolungata querelle tra primo e secondo Cinquecento che i manuali di storia letteraria chiamano “questione della lingua”. In quel dibattito Dante fu sovente sottoposto a severe critiche: e in effetti ai raffinati rimatori petrarchistici del Rinascimento opere come la Commedia e il Convivio sembrarono indigeste per quella retorica oscura e barbara di cui invece il medievale Dante si servì per dare un’immagine alta ed eletta della propria poesia. Del resto, per comprendere cosa abbia significato la Commedia per gli uomini del XV e XVI secolo, occorre non solo studiarne la tradizione testuale, ma anche la storia dell’esegesi: un dossier, quest’ultimo, colmo di tante e robuste prove di cui non si può non tenere il dovuto conto.

Se si confrontano due documenti di eccezionale valore conservati alla «Gambalunga», cioè l’incunabolo veneziano del 1477 della Commedia (p. 15), con i commenti di Jacopo della Lana e Jacopo Alighieri, da un lato e, dall’altro, il commento neoplatonico («sposizione») di Cristoforo Landino che correda l’edizione della Commedia ristampata a Venezia presso Giolitto nel 1536 (p. 15), risulta evidente la viva dialettica in cui il capolavoro dantesco si venne a trovare, in un’epoca in cui ancora lo sperimentalismo più acceso e vivace correva parallelo allo studio rigoroso dei testi e delle loro “fonti”. Ancora nella seconda metà degli anni Trenta del XVI secolo, appariva lecito interpretare la Commedia, un’opera intrisa di cultura medievale e filosofia scolastica, con gli strumenti ermeneutici che il geniale traduttore di Platone e Plotino aveva precisato entro il medesimo spazio ideale da cui scaturirono l’allestimento del Corpus Hermeticum e i diciotto libri della Teologia platonica. Niente di più lontano dalla formazione aristotelica (ovvero tomistica) di cui Dante si sente orgogliosamente partecipe. Anche il Ficino, le cui opere furono messe all’Indice dei libri proibiti sin dalla prima catalogazione del 1559, perché – non a torto –ritenuto ispiratore del riformatore Giovanni Calvino, è un’altra presenza la cui singolare aura aleggia tra gli scaffali antichi della «Gambalunga»: e molto ci sarebbe da dire sulla ricchezza dei materiali ermetici e alchemici conservati nel patrimonio riminese (basti il rinvio alle decorazioni del Tempio Malatestiano), ma non è questa la sede giusta.

Per ritornare alla “questione della lingua”, risolta da Pietro Bembo nel 1525 con un magistrale precetto di assoluta neutralità politica, fino a irreggimentare il fiorentino in una grammatica retrocessa di due secoli almeno (essendo una lingua solo da scriversi, la fonetica non aveva alcuna importanza), occorre dichiarare la ragguardevolezza di altro importante cimelio gambalunghiano. Si tratta del libro intitolato In difesa della lingua fiorentina e di Dante (p. 16), opera di Carlo Lenzoni (Firenze, Torrentino, 1556), il quale con acribia filologica contestò, da fiorentino parlante fiorentino, le proposte sostenute nelle Prose della volgar lingua del Bembo, e proprio al Dante autore del De vulgari eloquentia si richiamava per auspicare una rivalutazione delle idee linguistiche del suo illustre concittadino, il quale aveva visto benissimo, sin dal Trecento, che il purismo era una chimera per sprovveduti, e che una autentica lingua nazionale avrebbe potuto ottenersi anche grazie agli apporti provenienti dai vari idiomi utilizzati dagli abitanti della Penisola, certo opportunamente filtrati attraverso il rigoroso criterio della voce aulica, che a Dante stava particolarmente a cuore, pur senza sottostimare l’efficace concretezza del «parlar materno».

Conobbe e in parte assimilò le idee del Lenzoni il cesenate Iacopo Mazzoni, autore di un Discorso in difesa della Comedia stampato a Cesena presso Raveri nel 1573 (p. 17). Altro cimelio gambalunghiano che molto ci dice circa le critiche rivolte alla lingua e alla poesia di Dante nella seconda metà del Cinquecento. Ebbene negli anni Settanta del XVI secolo, all’indomani della conclusione del Concilio di Trento, in piena Controriforma, leggere terzine che raccontano di vicari di Cristo e rappresentanti della fede relegati nei cerchi infernali a patire le meritate pene per le scellerate azioni in vita commesse, facendosi beffe dei veri credenti, o peggio sottraendosi ai doveri e sacrifici imposti dall’abito talare, era occupazione da regolarsi con norme esplicite e ferme, appunto per evitare una disordinata e arbitraria lettura della Commedia, in particolare delle due prime cantiche, benché l’«invenzione del Purgatorio», progettato dai teologi alla fine del XIII secolo, avesse reso le condanne meno definitive.

Immenso resta comunque lo scarto tra le strutture e le forme della cultura dantesca e l’età barocca: basti consultare i cataloghi dei tipografi seicenteschi per constatare lo sparuto numero di edizioni della Commedia durante quel periodo in cui l’Europa cristiana venne funestata dalle guerre di religione, allorquando protestanti e cattolici fraternamente presero ad ammazzarsi con reciproco odio e risentimento catechistico. Grazie al lascito Tonini, in «Gambalunga» si possono sfogliare le pagine dell’Apologia del monsignore padovano Alessandro Carriero (p. 20), nella quale si dimostra l’eccellenza del poema di Dante (Padova, Paolo Meietti, 1583), una appassionata difesa della Commedia dalle imputazioni rivolte al poema sacro dal senese Bellisario Bulgarini. Certamente oggi, nel generale clima anche troppo magniloquente delle celebrazioni per il settimo centenario della sua morte, desta un certo stupore il fatto che persino un genio come Dante abbia dovuto procacciarsi dei difensori. Ma occorre tenere a mente che le fortune degli avi dipendono sempre dagli schemi ideologici (diciamo pure “valoriali”) divenuti dominanti nei secoli dell’avvenire. Basti considerare, da questo punto di vista, un episodio per certi versi emblematico: a partire dalla seconda metà del secolo scorso, dopo l’avvenuto riordinamento dello Stato nelle istituzioni del regime repubblicano, a sèguito della catastrofe nazifascista e dell’inglorioso tramonto della corona sabauda, il De monarchia ha perso la centralità che invece aveva nei programmi scolastici del Regno d’Italia, essendo l’autentica concezione politica di Dante (in drastica sintesi: un articolato sistema di municipia parzialmente autonomi assimilati nel quadro sovranazionale dell’Impero germanico, idea ribadita anche nel Purgatorio nei cosiddetti canti di Sordello) nient’affatto in sintonia con i pilastri sui quali poggia il vigente ordinamento costituzionale. E a breve bisogneràanche fare i conti, nelle aule scolastiche, con il canto XXVIII dell’Inferno, per doveroso rispetto degli italiani di fede islamica, e risparmiare loro il ripugnante ritratto di quel seminatore di scisma storpiato e sozzamente ricoperto dei propri escrementi.

Certo Dante è figura ingombrante, non solo per la coerenza estrema con cui professò e visse le proprie idee politiche e la propria fede, ma anche perché l’ammirevole intensità della sua invenzione letteraria – sostenuta, non si dimentichi, da una preparazione filosofica-giuridica e retorica eccellente – va compresa a partire dalle condizioni socio-culturali del suo tempo. Non che le menti del passato si siano trattenute dal fraintendere un orizzonte problematico estremamente complesso e articolato: anzi, i più impegnativi momenti della riflessione intellettuale dantesca sono stati spesso oggetto di controversia e polemica. Nel 1746 si pubblica un pamphlet del frate riminese Guido Vernani (p. 20) per dimostrare la stoltezza delle convinzioni politiche di Dante, il De reprobatione Monarchiae compositae a Dante Aligherio florentino (uscito a Bologna presso Tommaso Colli), nel quale esprimeva severa condanna (nel lessico del diritto canonico reprobatione vale “condanna eterna inflitta da Dio”) per l’idea della necessità della separazione tra potere religioso e potere temporale, riaffermando invece la legittimità del potere politico del sommo pastore. Certo nello Stato Pontificio non avrebbe potuto essere altrimenti, ma anche questo piccolo ma incisivo episodio locale ci informa sulla controversia del rapporto tra potere e cultura, allora come oggi.

Non che nell’età dei Luni la fortuna di Dante conosca particolare successo, ma almeno è da ammettere che le edizioni settecentesche si lasciano apprezzare non solo sul piano bibliografico ma anche su quello storico-critico. La «Gambalunga» possiede l’edizione in sei volumi pubblicata a Firenze presso Luigi Bastianelli e Domenico Marzi tra 1771 e 1774 (p. 18): edizione che riporta il testo stabilito dai filologi dell’Accademia della Crusca per la famosa stampa del 1595, con il commento del gesuita Pompeo Venturi (1693-1752), e con la già ricordata Vita di Dante di Leonardo Bruni, ricavata da un manoscritto appartenuto al medico e naturalista Francesco Redi (1626-1697), uno dei maggiori continuatori dell’insegnamento galileiano. Opera assai ragguardevole sul piano dell’esegesi testuale, grazie alle note del senese Venturi, professore di filosofia e di retorica in vari collegi toscani: mosso da finalità didattiche, senza dubbio il suo commento segna di fatto l’inizio della moderna critica dantesca, benché non si astenga dalla manipolazione ideologica del poema, di cui si dichiara il solo senso letterale, non quello allegorico o morale. La Commedia rimaneva un’opera pericolosa, pertanto andava proposta ai giovani in condizioni di massima cautela: e Venturi non si trattiene infatti dal biasimare severamente le invettive dantesche contro i papi e il clero, e dal segnalare i presunti errori dottrinali in cui incorse il suo autore.

L’Ottocento contrassegna il valore culturale della Commedia attraverso la sua traduzione in immagini, e le edizioni illustrate divengono di moda. Alla «Gambalunga» si possono ammirare i disegni di John Flaxman incisi da Giovanni Paolo Lasinio nell’edizione fiorentina stampata da Paolo Fumagalli tra 1851 e 1852 (p. 20), prezioso dono degli Eredi Bilancioni. È il Dante «visionario» che infervora la fantasia di poeti e artisti romantici, come dimostra la lunga sequenza di opere letterarie e iconografiche ispirate al mondo tenebroso e immaginario dell’oltretomba. Molto ci sarebbe da dire, e contraddire, circa il culto dantesco nell’età del Risorgimento, in base a una un poco forzata interpretazione divenuta paradigma e ancora oggi riproposta con feconda continuità. Un contributo decisivo lo ha dato anche la figura di Francesca da Rimini, la cui potenzialità eversiva ha trovato perfetta corrispondenza, come è ben noto, nella tragedia in quattro atti di D’Annunzio messa in musica da Riccardo Zandonai, e della quale la «Gambalunga» conserva due edizioni di notevole pregio bibliografico (pp. 34, 38). Ma con Francesca, eroina del vero amore e antesignana della libertà degli affetti, il compito del pedante filologo si interrompe rispettosamente, per lasciare campo ai briosi conferenzieri animati dalla volontà di propugnare la legittimità dell’eros nelle sue più intime espressioni. Si concluda, per l’appunto, all’insegna della Concordia, che così si chiamava la figliola di Francesca e Gianciotto.

Francesco Sberlati