Alessandro Moreschini installa negli spazi della Biblioteca due opere di arte contemporanea da lui realizzate. Si tratta di una sedia e una scultura raffigurante il volto di un fanciullo. Alessandro Moreschini è un artista dotato di un notevole talento pittorico. Con il suo tratto riconoscibile ed unico dà forma a minuziosi pattern ornamentali con i quali ricopre la superficie della tela o come in questo caso di oggetti uscendo così fuori dalla bidimensionalità della pittura per diventare tridimensionalità, oggetto. C’è una bellezza di fondo nelle opere di Moreschini e questo può portarci, in un primo momento, a considerare superficialmente quelle opere come frutto solo di un minuzioso esercizio. Questo perché per il nostro mondo contemporaneo una cosa bella non necessariamente è “etica”. Nel mondo greco per esempio, non era così. Etica ed estetica andavano di pari passo ed insieme erano la base della virtù e anche della filosofia. Non è un caso che il termine etica sia compreso nella parola est-etica. In passato a proposito della pratica di Moreschini avevo scritto: «L'uso di texture vicine alla tradizione medio-orientale sono un'apertura al dialogo tra popoli e culture, alla contaminazione di saperi e storie differenti, all'essere così e anche altrimenti, al mettere in discussione le regole del canone artistico occidentale, al mettere in discussione noi stessi. Ecco forse non ce ne accorgiamo ma la bellezza stimola questo nostro interrogarci, la meditazione, la riflessione. Il bello non necessariamente deve essere vuoto. L'estetica non necessariamente deve essere priva di etica».
Ora, la collocazione di una sedia vuota, simbolo di appoggio, sostegno, accoglienza, collocata nello spazio della biblioteca e non fruibile per la sua funzione da parte dei visitatori richiama un senso di solitudine, di assenza ma allo stesso modo sposta il punto di osservazione sulla sedia stessa, cioè sull’osservatore, quindi su noi stessi, sulla responsabilità che abbiamo rispetto al futuro dell’intera umanità. Il busto del fanciullino richiama alla memoria il passo del Fedone di Platone dove Cebes Tebano scoppia a piangere pensando alla morte di Socrate che sta per bere la cicuta. Al rimprovero dello stesso Socrate risponde dicendo che non è lui che piange ma il fanciullino che è in lui, tema reso celebre in seguito da Pascoli che attribuisce alla poesia, all’arte di sottrarre le cose al destino e di restituirle alla vita, di sottrarre le cose alla morte e riportarle alla vita, mantenerle in vita. Un messaggio di celebrazione della morte di Dante e del valore e dell’importanza della poesia in un mondo laico che sembra aver perso la sua spiritualità, la sua prospettiva di vita e vive il nunc et ora.
Raffaele Quattrone